Since 2006 Octopus wants to propagate its unique motif everywhere, from Milan to outer space, leveraging the value of persistence and multiplying the energy of who is a part of it—by making products that are, in fact, icons.

Octopus x Plague Labs

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Michele “Hiki” Falcone, l'uomo dietro Plague Labs, è il re italiano del rom hacking, l'arte che distrugge i videogame per ricostruirli in versioni assurde e folli. Se le mod dei videogiochi sono sempre esistite, gli hack ne sono la versione estrema e bastarda. Le cartucce a marchio Plague Labs, prodotte in edizione limitatissima da Michele e vendute sul suo sito, sono sempre instantaneamente sold out. Tanto che oggi Michele si guadagna da vivere programmando da solo videogame punk e horror, impresentabili e bellissimi. Le sue radici però sono, prima di tutto, di tatuatore e fumettista: i videogiochi sono l'evoluzione naturale di quel percorso, almeno stando a quello che racconta lui.

Plague Labs: Ho iniziato facendo fumetti, ma ciò che realmente m'interessava era – ed è – inventare personaggi: il character design, in sostanza. Ho iniziato a disegnarli da bambino, speravo di fondare un franchise così iconico da riuscire ad attirare l'attenzione di chi “metteva i videogame in quelle strane scatoline di plastica”.

Octopus: Partiamo dai fumetti. Quali sono quelli che ti hanno ispirato di più?
Nella mia testa, la grafica e l'arte visiva in genere sono parte di un unico calderone. Da lì attingo per generare la mia personale intuizione; non ho mai scisso con coscienza fumetti, videogame o gadget. Esistevano i personaggi, gli stili e i colori; solo dopo arrivava, al mio cervello infante, il mezzo scelto per presentarli. Attingo a tutto quello che ho visto e vedo, da Hideshi Hino (autore di Oninbo e molti altri fumetti horror, ndr) a Paperino. Ad oggi, capita che le idee migliori mi vengano suggerite da doujinshi (manga amatoriali autoprodotti, ndr) di qualche autore sconosciuto.





E quali sono le ispirazioni per le illustrazioni che sono finite sulle felpe e le magliette Plague Labs X Octopus?
In pratica sono dei collage di sprite tratti dal mio hack più famoso. 変態M3M0R135 è un pattern composto dai mostri “Hentacool” ed “Hentacruel”, parte delle mie mutazioni hentai-gore dei personaggi. Il tema del polpo di Octopus è perfetto per unirsi alle più profonde perversioni otaku, fra pixel ed hentai. 悪夢M0541C invece è un – appunto – mosaico scomposto di alcune delle illustrazioni dell'ultimo capitolo della saga, che s'incastrano tra loro come in un incubo dark, dove i confini fra sesso, droga e violenza si mischiano fino a divenire un unico, confuso, pattern psichedelico. Che è un po' uno dei temi portanti della mia produzione.

E invece, tutti quei riferimenti metal che ci sono nei tuoi giochi?
C'è un vero amore musicale. Anche perché sinceramente, non saprei da dove iniziare, se dovessi scimmiottare qualcosa che non mi appartiene. Quello che cerco di fare è un perpetuo patchwork iridescente di influenze multimediali: se puoi scorgere del metal, dell'hip hop o anche del punk o del noise, è perchè io sono lì. Vivo ognuna di queste personalità... e finora, pare riescano a convivere, più o meno, tranquillamente. Vedo i moti culturali (e anche tutto il resto), come un unico baricentro olistico a cui è impossibile affacciarsi con una percezione, musicale e non, monoteistica.

Si è mai arrabbiato qualcuno, per le tue parodie horror di giochi famosi?
L'etichetta di parodia è una sorta di scudo: la utilizzo per avvalermi del diritto universale di libertà di parola. Come credo ogni artista, miro a esprimermi libero da qualsiasi tipo di catena fisica o mentale. Il diritto d'autore, ad esempio, è un muro fin troppo fragile contro la spinta dell'autentico bisogno artistico. Mentre qualcuno si arrabbia, io studio come poter trasformare il mio vissuto in qualcosa di estremamente personale, seppur poi spesso condivisibile da molti. Voglio che quello che produco sia come una chiave che apre un'antica porta nel cervello. Se poi qualcuno dovesse arrivare al fanatismo, al terrorismo... bè, storicamente sono pochi gli artisti che si sono lasciati dissuadere da reazioni del genere.

I giapponesi come li hanno presi, i tuoi videogame?
In Giappone – come del resto in tanti altri paesi, compresa l'Italia – il mio lavoro rimane ancora relegato nell'underground. Con i fratelli nipponici mi trovo a scontrarmi anche con la barriera linguistico-culturale, non ho ancora comunicato abbastanza a lungo col Giappone, penso che solo ora si stia in un certo senso diffondendo la voce della mia esistenza. In ogni caso, reputo le mie opere come oggetti a lungo rilascio, non certo destinati a suscitare l'hype del minuto. Sicuramente, da quando la mia opera è esposta nei più grandi centri del retrogame giapponese, ricevo sempre più richieste da quella parte di mondo.

Ti fai chiamare Hiki Komori. Tra l'altro, il nome te lo sei scelto in tempi in cui si parlava pochissimo di hikikomori in Italia...
“Hiki” dapprima nasce come personalizzazione giapponesizzata del mio nome anagrafico, intorno agli anni 2000, senza che io sapessi nulla del fenomeno. Una volta scoperto il significato di hikikomori grazie all'anime Welcome to the NHK (ancora molto di nicchia), mi è sembrato molto figo appropriarmene interamente, poichè si riferiva ad un modo di fare molto vicino al mio modo di concepire l'arte: chiudersi in spazi ristrettissimi, immergersi fino al collo nella cultura otaku, fino all' ovvia degenerazione paranoide. Il termine è scritto originariamente in hiragana, i kana deputati a trascrivere i suoni di origine giapponese, ma a me piace scriverlo in katakana, l'alfabeto che si usa per le parole estere, come a sottolineare il mio essere “gaijin”, straniero.

Qual era il tuo mostro tascabile preferito, quando eri piccolo?
Hmm, vediamo come posso descriverlo... è rotondo, ombra, spettro e veleno, e ama stare nelle stanze scure. È lui il mio preferito, über alles. Tutto parte dall' amore infinito che nutro verso questo design, così semplice eppure così iconico... dalla consapevolezza, avuta sin da piccolo, che avrei voluto inventare io personaggi del genere, anche solo teorizzarli. Il destino invece me li ha fatti trovare già pronti, per poi avere la possibilità di “mutarli” in seguito.

Creare videogame è un lavoro per definizione di gruppo, collettivo. Tu invece lavori da solo, in modo radicalmente diverso.
Oserei definirmi un “artista dei videogiochi”, anche se sono qualcosa di molto lontano da questo, in effetti. I miei giochi, vuoi per scelte stilistiche o per veri e propri limiti tecnici, spesso sono rotti, confusi e contorti fino al limite. Ma è esattamente questo che affascina lo zoccolo duro dei miei giocatori: immergersi in mondi che pensavano di conoscere, rimanendo poi colpiti dal fatto che poco o niente risponde ai canoni che ricordavano. A carte rimescolate, si ritrovano a riscoprire da capo la loro infanzia, e quasi riviverla in un universo parallelo. Questo vandalismo della nostalgia, che ho chiamato “pixel vandalism”, credo sia un movimento artistico che ancora deve esprimersi pienamente. Mi sento un po' un pioniere di un movimento che cerca di legare l'animo ingegneristico a quello artistico, e forse – come capita a qualsiasi pioniere – non so bene dove porti questa strada, ma di sicuro la direzione è quella giusta. Non potrebbe essere altrimenti.

Interview: Michele Serra

 
 
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